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L’orizzonte del pensiero

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> di Daniele Baron

“Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”

DANTE, Divina Commedia, Inferno, Canto XXVI

Alberto-Savinio-Andrea-Francesco-Alberto-De-Chirico

Il pensiero ha il paradossale destino di non accontentarsi di ciò che è noto, dato, conosciuto e di voler sempre sperimentare il proprio limite. È come un viandante instancabile che, abbandonando la propria abitazione e la propria terra, vuole raggiungere la linea dell’orizzonte che unisce terra e cielo, pur avendo la triste consapevolezza che non sarà mai in grado di raggiungerla. Cosa sta al di là dell’orizzonte, quali paesi, quali popoli, quali usanze? Quello che trova vagabondando è sempre simile a quello che ha lasciato, non è ciò che sperava, accumula esperienza, nuove visioni, ma la linea dell’orizzonte è sempre là dove l’aveva lasciata il giorno prima. Egli è in realtà alla ricerca del mistero ineffabile che nasce dalle nozze tra il cielo e la terra. Quell’altrove posto oltre il limite del pensiero è ciò che, come l’orizzonte, continua a allontanarsi mentre ci si muove verso di esso. È l’ignoto, ciò che non potrà mai essere saputo.
Il pensiero umano ha prodotto grandi cose, ha accumulato conoscenze in vasti campi, creato scienze, religioni, morali, svelato numerosi misteri della natura, ma non si può appagare di quello che possiede. Tutto ciò che conosciamo, più o meno bene, tutto ciò che apprendiamo, non riesce minimamente a scalfire la nostra sensazione che l’essenziale sfugga. Il pensiero insomma non si accontenta del fatto di essere limitato, finito, di poter conoscere solo determinate cose e non altre, di poter sperimentare solo alcune sensazioni e non altre, di essere un granello di sabbia nel deserto dell’universo. È ben triste sentirsi solo una parte infima del tutto e non essere in grado neanche di sfiorare questo tutto!
Di fronte all’assurdità del nostro essere al mondo, di fronte al buio che precede e che segue la breve illuminazione che è la nostra vita – come la luce intermittente di un faro in una notte di tempesta – come possiamo mai accontentarci di ciò che sappiamo? La fortuna della religione e della filosofia nasce in primo luogo dalla nostra condizione di uomini destinati ad una esistenza contingente, senza alcuna giustificazione intrinseca. La sensazione di questo fatto viene magistralmente caratterizzata da Sartre ne La Nausea come la consapevolezza di “essere di troppo” per l’eternità. Potremmo accumulare dati su dati, specializzarci in un certo campo, diventare esperti di qualche o più argomenti, ma non potremmo mai dire che lo scopo del pensiero sia la sua applicazione a un particolare campo. Ecco perché la sete di sapere, quella che muove Ulisse e lo fa naufragare, non è desiderio di accumulo di conoscenze in primo luogo, ma è sguardo volto all’ignoto, è sguardo all’orizzonte. È il non-sapere la molla che spinge a pensare e a conoscere, è l’ignoranza del tutto, che continuamente ci assilla dal fondo della sua notte, a farci mettere in cammino; in ultima analisi, il non-sapere è il vero sapere; non nel senso che è meglio ignorare che sapere, ma nel senso che non possiamo essere soddisfatti di quello che possediamo, che le conoscenze raggiunte non sono in grado di rispondere alle domande sempre rinnovate da millenni.
La necessità del naufragio, causato dal divario tra le nostre forze esigue e la grandezza dell’impresa, non ci distoglie dall’affrontare la tempesta, intraprendiamo il viaggio con disperata allegria, forse perché il naufragar ci è dolce in questo mare.
Si può anche dire che ciò a cui tendiamo è il trascendente, qualche cosa posto sempre al di là, che lo scopo del pensiero, alla fine, è la rivelazione ultima del mistero del nostro essere al mondo, o, al limite, la contemplazione di Dio. Nel momento in cui però vogliamo definirlo, determinarlo, conoscerlo una volta per tutte, ci sfugge, è come voler trattenere con le mani tutta l’acqua che sgorga da una sorgente: ne possiamo tutt’al più contenere una minima parte, o bagnarci, ma mai conservarla.
Le forme di sapere che si propongono di conoscere il tutto falliscono miseramente e producono solo pie illusioni. Diremo che sono anche pericolose, perché, essendo conoscenza di tutto, non possono avere fuori di sé nulla e pretendono di inglobare l’altro da sé, devono per necessità avere sempre ragione e escludono come errore tutto ciò che è difforme rispetto alla totalità che pongono. In questo caso si realizza una perversa unione tra sapere e potere per cui chi è altro rispetto alla verità ufficiale viene emarginato, espulso, discriminato o al massimo tollerato con indulgenza. Si formano caste di sacerdoti del vero e del tutto, custodi dell’ortodossia che inquisiscono ogni forma di pensiero eterogenea. Tuttavia, dietro ai paramenti, dietro alla ritualità dei gesti, dietro all’oro che orna gli altari, dietro al marmo, dietro al sacro che come un manto ricopre ogni cosa, si nasconde solamente una umana, troppo umana, volontà di possedere la verità e di far trasparire ovunque la certezza di tale possesso.
A questo punto sorge una obiezione: non è forse meglio limitarsi, rimanere al di qua del confine, non sfidare la tempesta, non guardare oltre, non cedere alle lusinghe di quell’altrove indefinito? La pace non può forse essere ritrovata zittendo l’ansia del trascendente che ci divora, vivendo senza illusioni, senza troppe domande, così come viene, “alla giornata”?
Saremmo forse più sereni se vivessimo senza pensiero sul limite, ma è chiaro che il senso del nostro esser-qui è dato solo da quell’altrove che non potremo mai conoscere, che l’ignoto compenetra il noto e lo rende possibile, che la nostra stessa stoffa è costituita dal paradosso che dice che solo ignorando tutto potremmo sfiorare la verità. Il pensiero dunque è sempre spinta a parlare sul limite, da intendersi come confine del razionale, del conscio e dell’umano.
Se il pensiero non fosse anche estasi e delirio, se il non-senso non venisse a rallegrare la nostra esistenza, se non lanciassimo di continuo la sfida al cielo e alle stelle, se non riuscissimo a uscire dalla condizione finita e limitata che ci caratterizza, se qualcosa di non-umano non popolasse i nostri sogni, allora l’esistenza sarebbe ridotta a mero sopravvivere in un universo muto; saremmo allora forse più sereni, forse la nostra vita assomiglierebbe a quella di un animale o di un vegetale o sarebbe un semplice meccanismo, ma non potremmo accedere alle altezze per le quali ci sentiamo destinati.
Proprio nel non poter raggiungere la totalità, nel dover affrontare una fatica degna di Sisifo per l’intera esistenza, proprio nel non aver accesso a ciò che si desidera sapere più di tutto e tuttavia continuare a cercare, a viaggiare, a spingersi oltre, a oltre-passare, sta la miseria e allo stesso tempo la grandezza dell’uomo.

Solchiamo dunque l’alto mare aperto con la disperata allegria dei naufraghi come Ulisse e i suoi compagni, l’ebbrezza dello spaesamento che il viaggio porterà con sé e ciò che giureremo di aver intravisto oltre le colonne d’Ercole compenseranno – forse – l’impossibilità e la vaghezza della meta!

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